Danza Libera Teatrale

Danza Libera Teatrale
teatro danza

mercoledì 28 settembre 2011

Ruth St. Denis



Ruth St. Denis, pioniera della danza libera americana, vive se stessa come “un ritmico e impersonale strumento di rivelazione spirituale”: “il corpo si fa specchio dell’anima”, “strumento di comunicazione totale e profonda col divino, secondo quanto già Delsarte predicava, concependo l’arte e la preghiera come due aspetti di un’unica realtà.” Scrive la St. Denis: “La Danza è moto, che è vita, bellezza, che è amore, proporzione, che è forza. Danzare è vivere la vita nelle sue vibrazioni più sottili e più elevate, vivere in armonia, purezza, controllo. Danzare è sentire se stessi come parte del mondo cosmico, radicati nella realtà interiore dello spirito. La rivelazione della bellezza spirituale in termini di movimento è la progressione naturale e inevitabile della vita e dell’arte, e la parola Danzatore dovrebbe correttamente significare colui che esprime col gesto corporeo la gioia e la potenza del proprio essere.” Nel 1913 la St Denis incontra Ted Shawn, con il quale inizia un stretta collaborazione che li porta a fondare la Denishawn, scuola laboratorio per l’educazione al movimento e alla danza e nel contempo compagnia di danza moderna. Alla fine della guerra, la St Denis si dedica alla all’elaborazione di un sistema da ,lei chiamato Music Visualisation, definito dalla sua creatrice “la traslazione scientifica in azioni corporee del ritmo, della melodia e delle strutture della composizione musicale, senza intenzioni interpretative e rivelazione di nascosti significati da parte del danzatore.” L’attenzione capillare ad ogni elemento musicale la porta verso un tipo di danza più astratta e più connotata tecnicamente. Ted Shawn, ritenuto invece il vero “motore teorico” della scuola, crede nella danza come espressione universale del sentimento religioso dell’uomo. Tecniche e stili non sono rifiutate a priori, bensì devono essere utilizzate per formare in modo completo il danzatore, per affinare sempre più la sua sensibilità e rendere personale quanto acquisito. Partendo da elementi tecnici e formali tratti da Delsarte, Shawn ritiene che l’uomo è una realtà unitaria nelle sue manifestazioni espressive e il movimento un linguaggio primario e universale. Fissa i cosiddetti Foundamentals of Movements partendo dalle tripartizioni di Delsarte (intelletto, anima, vita; testa/collo, torso, addome/fianchi; parallelismo, opposizione, successione; ecc.) e dalle nove leggi della teoria dell’espressione. Decisive per gli sviluppi della danza moderna, saranno le “opposizioni”, dalle quali abbiamo i movimenti di shaking e di vibrating, scuotimento e vibrazione, efficaci per la comunicazioni di forti emozioni, e le “successioni”, movimenti strutturali della coreografia come la caduta ed il sollevamento, l’apertura e la chiusura, ecc. Inoltre, individua una serie di passi, posture, gesti strettamente connessi ad un’esperienza particolare che si traduce in spazio, ritmo e tempo. In questo modo, supera la visione della danza come portato emozionale di una concreta esperienza e di un vissuto effettivo, ponendo l’accento sulla natura simbolica del movimento. Riprendendo l’universo ideale di Delsarte, tenta di riportare l’espressione corporea alla sua origine divina dichiarandone anche la matrice archetipica.(a cura dell'ass.Dhyana)

lunedì 26 settembre 2011

Grotta dei Cervi-Dio che balla



La Grotta dei Cervi è una grotta naturale costiera, sita lungo il litorale salentino in località Porto Badisco.
È stata scoperta il 1º febbraio del 1970 da cinque membri del Gruppo Speleologico Salentino "P. de Lorentiis" di Maglie -Lecce-(I.Mattioli, S.Albertini, R.Mazzotta, E.Evangelisti e D.Rizzo) ed è il complesso pittorico neolitico più imponente d'Europa. In un primo momento le si diede il nome di “Antro di Enea”, per via della leggenda secondo la quale Enea sbarcò in Italia proprio a Porto Badisco. Il nome attuale deriva dalle successive scoperte dei pittogrammi.
Si suddivide in tre ampi corridoi percorsi da pitture scoperte al loro interno. • Il I corridoio è lungo circa 200 metri, ed a un certo punto si sdoppia in due rami uno in direzione nord alla fine del quale furono ritrovato due scheletri, e l’altro in direzione sud-est. • Il II corridoio è ricco di pitture, e anch’esso è lungo 200 metri e vi si accede da un cunicolo passante dal I corridoio. Questo corridoio verso la fine si allarga dando accesso a due sale successive. Verso la metà il percorso si interrompe e vi è la presenza di un laghetto naturale formatosi dalle acque di stillicidio, e successivamente vi è la presenza di un deposito di guano adoperato dall’uomo neolitico per dipingere. • Il III corridoio è lungo anch’esso 200 metri e al suo interno vi si accede dal II corridoio attraverso un’apertura molto bassa. Per accedere all’interno del complesso sono presenti due ingressi: • Uno OCCIDENTALE, che si immette solo nel primo corridoio; • Uno ORIENTALE, che da accesso a tutti e tre i corridoi. Vi è inoltre la presenza di un cunicolo che da accesso ai corridoi, ed è stato prontamente scavato e rinforzato lungo le pareti da muretti a secco, da parte dell’uomo neolitico.

I pittogrammi, in guano di pipistrello e ocra rossa, raffigurano forme geometriche, umane e animali, che risalgono all'epoca neolitica, tra il 4.000 ed il 3.000 a.C.
Le figure rappresentano cacciatori, animali (cani, cavalli, cervi), oggetti, simboli magici, geometrie stratte e molte scene di caccia ai cervi (da cui il nome della grotta). Uno dei pittogrammi più famosi è il cosiddetto Dio che balla, che raffigura uno stregone danzante.(fonte wikipedia)

domenica 25 settembre 2011

Pina Bausch-Tanztheater



È difficile immaginare cosa sarebbe il teatro della danza dell'ultimo quarto di secolo senza la paradigmatica esperienza e creatività di Pina Bausch. Questa coreografa dall'inconfondibile silhouette nera e dall'effigie esangue, sofferente, come in preda all'imminente consunzione ma in realtà da anni potente e energica capofila del genereteatrodanza (o Tanztheater), è riuscita a modificare gli orizzonti culturali ed estetici della danza del nostro tempo, guadagnandosi non solo una schiera di imitatori ma anche un pubblico insospettabile: forse il pubblico più largo e nuovo che qualsiasi altro coreografo di oggi abbia attirato a sé. Complice del suo successo, almeno in Italia, è proprio il termine Tanztheater da lei adottato per definire il suo teatro della danza, o 'della vita' e 'dell'esperienza': in realtà un termine d'uso, strettamente correlato a un preciso progetto artistico comune a un'intera generazione di creatori e coreografi tedeschi come lei ingaggiati, già negli anni Settanta, all'interno di grandi strutture e teatri d'opera della Germania. Per segnalare che la loro produzione artistica non avrebbe più avuto alcuna attinenza con il balletto o la danza moderna, precedentemente accolti in quegli stessi teatri, essi preferirono chiamare le loro compagnie, nonché definire la loro stessa produzione, Tanztheater. Nella lingua tedesca questo vocabolo composto significa semplicemente teatro della danza, ma in molti paesi di lingua non tedesca, come appunto l'Italia, esso ha dato adito alle più diverse e spesso improprie traduzioni/interpretazioni. Tanto è vero che la tentazione di inscrivere la geniale Bausch nell'alveo dei registi teatrali, sminuendo così sia la sua formazione strettamente coreutica che quella dei suoi interpreti-ballerini, ha provocato non pochi equivoci nell'iniziale esegesi del suo teatro, almeno sino a quando la sua evidenza danzante e le recise affermazioni della stessa B., che tante volte ha dato di sé persino la definizione di `compositrice di danza', per rimarcare l'importanza della musica e dell'ispirazione musicale nelle sue opere, hanno finito per convincere anche i più increduli della natura eminentemente coreografica, anche nell'uso del gesto teatrale e della parola, del suo 'teatro totale'.
L'immagine dell'adolescente e timidissima Pina che trascorre i suoi giorni sotto i tavoli del ristorante del padre e ne osserva, in desolata solitudine, gli avventori (un flash che servirà poi per ricondurre a memorie personali il suo indiscutibile capolavoro del 1978: Café Müller) è la prima di un'agiografia che contempla pure lo sconforto della ballerina in erba dai piedi troppo lunghi (a dodici anni calzava già il 41) per calzare le scarpette a punta. Ma prima di entrare, quindicenne, alla Folkwang Hochschule di Essen, diretta da Kurt Jooss, allievo e divulgatore delle teorie e dell'estetica dell'Ausdruckstanz (danza espressionista) promulgata da Rudolf von Laban, la B. non aveva mai frequentato veri corsi di balletto o di danza; compariva assiduamente, però, nel teatro della sua città e ben presto ne divenne una comparsa, utilizzata in operette e piccoli ruoli e anche in serate di balletto. A Essen, dove ha la fortuna di studiare proprio con Jooss, si diploma nel 1959 e ottiene una borsa di studio dal Deutscher Akademischer Austauschdienst (l'Organizzazione tedesca per i programmi di scambio accademico) che le consente di perfezionarsi negli Usa. A New York è `special student' alla Julliard School of Music, dove studia, tra gli altri, con Antony Tudor, José Limón, Louis Horst e Paul Taylor; contemporaneamente entra a far parte della Dance Company Paul Sanasardo e Donya Feuer, creata nel 1957. Viene quindi scritturata dal New American Ballet e dal Metropolitan Opera Ballet diretto da Tudor. Nel 1962 Jooss la invita a tornare in Germania e a diventare ballerina solista nel suo ricostruito Folkwang Ballet. Dopo l'elettrizzante esperienza americana, il nuovo impatto con la realtà tedesca è deludente. Il lavoro dei danzatori non è così approfondito e severo come a New York: la B. cerca partner infaticabili, che le somiglino, e inizia a collaborare con il danzatore e futuro maestro Jean Cébron che sarà suo partner nelle prime esibizioni italiane (al festival dei Due Mondi di Spoleto del 1967 e del '69). Dal 1968 diviene coreografa del Folkwang Ballet e nell'anno successivo ne assume l'incarico di direttrice. Risale a quel periodo anche la creazione di Im Wind der Zeit (1969) che le vale il primo premio al Concorso di composizione coreografica di Colonia, seguito, tra gli altri lavori dell'epoca, da Aktionen fur Taumnzer (1971) e da Venusberg per il 'Baccanale' del Tannhauser di Wagner (1972). Nel 1973, su invito del sovrintendente Arno Wüstenhöfer, accetta la direzione della Compagnia di balletto di Wuppertal, ben presto ribattezzata Wuppertaler Tanztheater: i suoi primi collaboratori sono lo scenografo Rolf Borzik, scomparso nel 1980, e i danzatori Dominique Mercy, Ian Minarik e Malou Airaudo.
Nel 1974 crea la pièce Fritz (su musiche di Mahler e Hufschmidt), l'opera-ballo Iphigenie auf Tauris(riallestito nel 1991 all'Opéra di Parigi), la rivista Zwei Krawatten, il balletto su musiche da ballo e canzoni del passato Ich bring dich um die Ecke e Adagio-Fünf Lieder von Gustav Mahler : una danza sui Liedermahleriani. Il 1975 è l'anno della realizzazione scenico-coreografica di Orpheus und Eurydike di Gluck, ricomposto nel 1992 e ammirato anche in Italia (Teatro Carlo Felice, 1994), e dell'importante trittico stravinskiano Frühlingsopfer (Wind von West, Der zweite Frühling e Le sacre du printemps ), seguito dalla prima svolta nella carriera dell'artista che coincide con un progressivo allontanamento dalle forme canoniche della coreografia, ben evidente in opere ormai di rilevante importanza storica, come Die sieben Todsünden su musica di Kurt Weill (1976), Blaubart, Beim Anhören einer Tonbandaufnahme von Béla Bartóks Oper"Herzog Blaubarts Burg", su motivi dell'opera bartókiana Il castello del duca Barbablù , che nel 1998 affronta da regista, su invito di Pierre Boulez. E ancora Komm tanz mit mir (1977), una pièce accompagnata da antiche canzoni popolari, l'operetta Renate wandert aus (1977) e un originale adattamento del Macbeth shakespeariano ( Er nimmt Sie an der Hand und führt Sie in das Schloss, die anderen folgen, 1978). Gli allestimenti successivi al capolavoro Café Müller (quaranta minuti di danza su musica di Henry Purcell, per sei interpreti in tutto, tra cui la stessa coreografa che sino alla fine degli anni Novanta non accetterà più di comparire in scena) tengono conto soprattutto della scoperta del linguaggio, del verbo, della parola e di un'intera gamma di suoni originari, intesi come possibilità di articolazioni animali (ridere, piangere, urlare, sussurrare, tossire, piagnucolare) già sperimentata in Blaulbart : vero spettacolo di riferimento per il passaggio alla sua nuova `drammaturgia totale'. Proprio in questo spettacolo frantumato e elettrizzato dal fruscio delle foglie secche disseminate in scena, la coreografa inizia a mettere a fuoco un nuovo metodo di lavoro. Invece della tradizionale imposizione ai ballerini di movimenti e passi, si propongono dei `questionari' scritti e orali ai quali la risposta potrà essere verbale o corporea. Istigando la sua troupe, la Pina Bausch finisce per sostituire le partiture e i testi drammatici (Stravinskij per il suo madido e furioso Sacre du printemps , Brecht per Die sieben Todsünden , Shakespeare per il già citato Macbeth del 1978, che ha il titolo di una lunga didascalia) con un variegato collage di risposte a domande quali: «Da piccolo avevi paura del buio?», «Cosa fai quando ti piace qualcuno?», «Qual è il tuo maggiore complesso fisico?». Il risultato eclatante della sovvertita pratica coreografica - come dimostra lo spettacolo 1980, Ein Stück von Pina Bausch - non consiste però solo nell'entrata in scena di urla, gesti sonori, canti, parole e musiche di riporto - tutte novità relative nella storia della danza, in specie per il ceppo espressionista, a cui Pina Bausch, con il tramite del suo maestro Jooss, ma anche nella progressiva demolizione del mito e dell'estetica tradizionale del ballerino. Trasformarlo in `persona' che si muove in abiti quotidiani (giacca e pantaloni per i danzatori, sottovesti, ma soprattutto lunghi abiti da sera per le danzatrici) crea uno scandalo negli edulcorati ambienti del balletto europeo e costa a Pina Bausch accuse di volgarità e cattivo gusto germanici, specie da parte della critica americana, sbigottita di fronte al realismo del pianto delle sue danzatrici, e persino accuse di sadismo verso il vissuto interiore degli interpreti.
In Italia, spettacoli degli anni Settanta e Ottanta come Kontakthof del 1978 (incredula e ancora impacciata l'accoglienza al Teatro alla Scala nel 1983), Bandoneon, creato nel 1980, subito dopo un lungo soggiorno in Sud America e Auf dem Gebierge hat Man ein Geschrei gehört (1984) ottengono un riconoscimento ufficiale a Venezia, grazie a un'antologia della Biennale Teatro alla Fenice (1985). Prima di questa importante vetrina solo Café Müller e Keuschheitslegende (1979), entrambi presentati al Teatro Due di Parma nel 1981, con Nelken (1983), allestito nell'anno di nascita al Teatro Malibran di Venezia, avevano turbato, rapito e scosso il pubblico italiano. E mentre alcune opere importanti come Arien (1979) e Walzer(1982) attendono non solo una prima italiana ma di essere riallestite, la coreografa viene consacrata negli anni Novanta un po' ovunque. Nelle sue pièce totali si scopre quanto abbia saputo dolorosamente scavare nella psiche del danzatore, restituendogli una gestualità senza maschere e una padronanza totale della scena. Errate interpretazioni del suo metodo di lavoro, come già si diceva, hanno tentato di accostarla al mondo del teatro di improvvisazione. In realtà, la B. ha sempre utilizzato a sua esclusiva discrezione i materiali espressivi dei ballerini, anche affidando il vissuto di un danzatore a un altro, come se avesse a che fare con semplici passi di danza e non con un frammento di vita: il piglio un poco dittatoriale - in lei sofferto e gentile - è quello tipico di molti coreografi. E coreografa alla potenza si è rivelata nel saper gestire il respiro scenico dell'universo dei suoi interpreti a cui è toccato ricostruire le anomalie del vivere sociale, l'irrisolta battaglia tra i sessi, lo sgretolamento dei valori più saldi della generazione successiva all'Olocausto, in un corollario di vizi e virtù umane del popolo tedesco ma non solo, esposte non senza una potente patina di divertimento e di ironia. Basti pensare alla creazione di quegli assolo, che restano a futura memoria nell'iconografia del suo teatrodanza, in cui l'invenzione gestuale è tanto minima quanto freschissima (in Nelken , Luzt Förster traduce con l'alfabeto dei sordomuti la canzone Someday he'll come along e Anne-Marie Benati se ne sta sola, senza vestiti ma con un paio di mutande bianche e una fisarmonica al collo, nel campo di garofani che accoglie la pièce), o a quei trionfali `passi à la Bausch', ritmati e a larghe volute, con i quali ha tanto spesso spedito (come in 1980 , morbido ma agrodolce party dal sapore hollywoodiano) i suoi fedelissimi tra il pubblico, in una manovra di avvicinamento alla non-fiction sempre più insistita e fisica. Nell'arco creativo che corre da 1980 a Palermo, Palermo , lo spettacolo sontuoso e degradato, allestito nel 1991 sul campo degli scempi siciliani (si assiste al crollo di un muro che inevitabilmente evoca quello di Berlino) la B. ha indubbiamente creato il suo teatrodanza maggiore. E si è concessa poche libertà d'autore: il vezzo molto tedesco di definire Stücke , ossia `pezzi', tutte le sue opere collettive, come schegge romantiche della sua fantasia musicale, e l'altro vezzo del viaggio goethiano, esotico e ricognitore, tuttora inarrestabile. La creazione a getto continuo di scenografie vive e naturali (di Rolf Borzik, prima, e di Peter Pabst, poi) ha contribuito a alimentare la trasognata spettacolarità degli Stücke sempre vestiti della prediletta costumista Marion Cito.
L'acquario con veri pesci fluttuanti e la serra di piante grasse di Two Cigarettes in the Dark (1984), la terra che dall'alto cade nella fossa `romana' di Viktor , lo spettacolo creato nel 1986 e dedicato alla città caput mundi ; il deserto punteggiato di grandi tronchi spinosi e ingombranti di Ahnen (1987) come l'acqua che ostacolava le disperate corse di Arien e il prato profumato di 1980 , hanno di volta in volta preservato la sua inventiva dal pericolo di reiterare la formula-cliché deflagrata e a frammenti del suo teatrodanza. Nello spettacolo Danzon (1996) la scena proiettata e a `cartoline illustrate' di Peter Pabst indica un momentaneo allontanamento dagli elementi vivi della natura a lei cara: tra pesci tropicali che scorrono in immagini filmiche torna a danzare, con le sue braccia morbide e tormentate, la stessa B., sublime e decorativa mentre saluta il pubblico alzando una mano. Due episodi cinematografici, come la partecipazione, nei panni di una contessa non vedente nel film E la nave va di Federico Fellini e la confezione del lungometraggio Die Klage der Kaiserin (1989), in cui l'influenza felliniana e l'impianto visionario non giungono però a comporsi in un ritmo narrativo efficace e serrato, non la distolgono dal proseguire il suo viaggio goethiano alla scoperta di paesi e città del mondo. Dopo Roma e Palermo, le nuove tappe sono Madrid ( Tanzabend II , 1991), Vienna, Los Angeles, Hong Kong, Lisbona. Nascono il californiano Nur Du(1996), il cinese Der Fensterputzer (1997), concepito nel momento della cessione di Hong Kong alla Cina e il portoghese Masurca Fogo (1998): tre spettacoli 'leggeri', più corti e rapidi di quelli storici degli anni Ottanta (spesso condotti oltre il limite delle tre ore), con ritmi incalzanti e musiche a collage, sempre festose. La nuova risorsa della coreografa di Wuppertal è infatti la riscoperta della danza pura - il tango diNur Du , il folklore rivisitato di Danzon, le ammalianti passerelle di Masurca Fogo - nell'utilizzo di danzatori sempre nuovi ai quali sembra però assai più difficile poter sottoporre i `questionari' del suo metodo, così adatto a generazioni di ballerini a lei coetanei ma forse sprecato per le generazioni danzanti telematiche e cibernetiche, alle quali non a caso assegna sempre più spesso ruoli muti e di puro movimento nel confronto ancora strettissimo con i grandi e riconoscibili interpreti del Wuppertaler Tanztheater che non l'hanno abbandonata (oltre a Minarik e a Mercy, l'attrice Mechthild Grossmann).
Nato negli anni Settanta, come il cinema neorealista a cui fu strettamente legato, sullo sfondo di una cultura tedesca disposta a mettersi in crisi, il teatrodanza di Pina Bausch si deve considerare un edificio storico che funge da spartiacque: esiste infatti un teatrodanza precedente alla B. e di origine tedesca, che non ha mai ottenuto il successo e il riconoscimento di quello bausciano, mentre la coreografa ha fatto tesoro sia dell'insegnamento di Jooss che di quello di Tudor (il maestro del balletto psicologico ), andando a influenzare le arti limitrofe, come il teatro a cui ha svelato la portata dell'eredità di danza e balletto, nel segno di un neo-espressionismo che non ha certo esaurito la sua funzione estetico-artistica-sociale, anche se fatica a superare le modalità compositive spledidamente cristallizzate dalla coreografa. Esemplare resta il suo lascito coreutico in opere come Le sacre du printemps e Café Müller , in cui la tecnica coniuga i fondamenti della danza libera nell'utilizzo espressivo soprattutto degli arti superiori. Nel teatrodanza della B. il corpo del danzatore necessita di una formazione accademica - frequente l'uso di figure tipiche del balletto ( arabesque, attitude ) e di pirouettes - anche se nel suo irrinunciabile avvicinamento alla vita la coreografa rompe continuamente la prigionia dei codici o vi fa ritorno per paradosso, in episodi, spesso ironici, di riflessione sulla danza stessa e sulla fatica di danzare, che costituiscono uno dei leitmotive non secondari della sua coreografia 'totale'. (fonte myword.it)


Musica e stati alterati di coscienza


Musica e stati alterati di coscienza: una questione ancora aperta
Seminario internazionale di studi - Fondazione Cini - Venezia - 24 - 26 gennaio 2002

Un'associazione sistematica tra musica e stati transitori di alterazione delle attività psichiche (trance, estasi, sdoppiamento o sovrapposizione di personalità, visione, 'viaggio' mistico, ecc.) è riscontrabile alle più diverse latitudini, nei riti a sfondo terapeutico e religioso di molte culture e società tradizionali. Essa costituisce tuttora un tratto caratteristico dei cosiddetti culti di possessione africani e mediterranei, dello sciamanismo euroasiatico e amerindiano, delle pratiche devozionali della mistica islamica e anche di alcuni nuovi riti cristiani.

Già rilevata da Platone e Aristotele, questa singolare relazione fra musica e stati non ordinari di coscienza è divenuta oggetto di particolare attenzione soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo scorso, a seguito di approfonditi studi antropologici e storico-religiosi sulle tecniche e le religioni "estatiche" (Eliade, Bastide, Lewis ecc.), suscitando anche un certo interesse di massa grazie alla particolare diffusione di alcune ricerche, come quelle di De Martino (e Carpitella) sul tarantismo pugliese o di Métraux sul voduhaitiano.
Sui cosiddetti ASC (Altered States of Consciousness) e le varie relative "tecniche del sacro" si è sviluppato un acceso dibattito anche in ambiti neurofisologici, psicoantropologici ed etnopsichiatrici (Neher, Ludwig, Tart, Prince, Bourguignon, Zémpleni, ecc.), mentre sulla questione più specifica delle potenzialità della musica nell'induzione di condizioni estatiche o di trance fondamentale si è rivelato il contributo dell'etnomusicologia; in particolare, il noto saggio di Gilbert Rouget su "Musica e trance" (1980) ha proposto una classificazione dei vari fenomeni avanzando precise ipotesi sui rispettivi ruoli che musica, danza, rito e finalità terapeutiche giocano nello "strano meccanismo" dei riti di possessione.

Per alcuni anni, anche a seguito dello studio di Rouget, la discussione scientifica sui rapporti fra musica e stati non ordinari di coscienza è stata molto vivace e ricca di contributi, ma nell'ultimo decennio il dibattito si è progressivamente attenuato, lasciando aperti non pochi interrogativi circa l'effettivo "potere" - puramente emozionale e comunicativo o anche psicofisiologico - della musica all'interno dei vari dispositivi terapeutici e religiosi tradizionali.

Paradossalmente, però, le questioni sollevate si sono riverberate al di fuori degli ambiti scientifici, favorendo indirettamente un proliferare di nuovi fenomeni: dallo sviluppo di particolari tecniche terapeutiche con musica, quali ad esempio la "respirazione olotropica" sperimentata a partire dagli anni '70 dal medico praghese Stanislav Grof in California, a un interesse crescente delle nuove generazioni occidentali per alcune pratiche coreutico-musicali tradizionalmente connesse alla trance o all'estaso, come ad esempio quelle dei rituali gnawa del Marocco, dei dervisci Mevlevi turchi o del tarantismo pugliese, attualmente oggetto in Salento di un singolare quanto problematico revival .

sabato 24 settembre 2011

Loie Fuller


Originale danzatrice e abile coreografa, Loie Fuller attraversò agli inizi del Novecento i palchi dei teatri d'Europa e Stati Uniti, ma fu anche sovente d'ispirazione per gli artisti Art Nouveau che la ritrassero e ai quali fu, successivamente, accostata dalla critica. Le chiavi del suo successo furono estemporanee creazioni dipinte con la danza nello spazio della scenza teatrale: infinita gamma di fiori e farfalle vorticanti nell'aria, create attraverso il movimento repentino del corpo, avvolto in leggeri veli di seta.

Louise (Loie, secondo il nome d’arte) Fuller nacque negli Stati Uniti nel 1862, a Fullersburg, nell’Illinois; fino ai trent’anni il suo nome rimase pressocchè legato, nel mondo dello spettacolo, a piccoli esibizioni in qualità di attrice e, poi, di direttrice di una piccola compagnia di vaudeville, esibendosi, di tanto, anche in performance di ballo, delle cui conoscenze tecniche non fu però mai realmente dotata, se non a livelli assai modesti. Fu proprio la danza, tuttavia, a renderla nota al grande pubblico e fino a noi.
Sfruttando, infatti, le proprie conoscenze di illuminotecnica maturate nel corso degli anni e avvalendosi, nondimeno, di quel gusto dell’improvvisazione e dell’estemporaneità dello spettacolo che condivideva con i piccoli artisti di palcoscenico, nel 1890 la piccola Loie iniziò ad esibirsi in danze caratterizzate da ampi veli di seta che avvolgevano il suo corpo e che erano, a loro volta, colorati da riflettori puntati sulla scena: uno spettacolo che andò via via perfezionandosi in forme più complessse, fino al suggestivo spettacolo “Le Feu” (”Il Fuoco”), dove apparve al pubblico avvolta nell’oscurità, dipinta con colori fluorescenti ed illuminata dal basso attraverso lastre di vetro trasperenti.
Il segreto della Fuller consistette, più che nell’abilità di ballerina vera e propria, nel far muovere bacchette invisibili sotto gli ampi drappeggi che l’avvolgevano e nel mutare continuo della luce proiettata sulle forme impresse al suo corpo dal movimento dei veli, ottenendo, così, una ricchissima serie di forme e colori cangianti.
Sull’onda del successo per la sua originale danza, Fuller si emancipò dalla dimensione dei piccoli spettacoli locali, realizzando tournè sia nel Nuovo che nel Vecchio Continente; in Francia fu inizialmente scritturata dalla Folies-Bergére ma, successivamente, aprì anche una propria compagnia e gruppo di ballo, alternando il proprio posto sul palco alla direzione stessa degli spettacoli.
Ricchissima fu l’iconografia a lei dedicata. La sua presenza si divise fra opere grafiche e scultoree: dalle locandine del Folies-Bergére, come quella creata da Jules Cheret, ai dipinti e disegni degli artisti Art Nouveau / Jugendstill, come H. de Toulouse-Lautrec e K. Moser, e le lampade di R. F. Larche. Una serie assai ampia, dunque, paragonabile a quella di altre stelle dello spettacolo del Primo Novecento come Sarah Bernhardt, Eleonora Duse o Isadora Duncan, ma segno anche di una vicinanza d’intenti con gli artisti di tali movimenti artistici.

Assai discussa fu anche la sua vita privata; faceva notizia la compagnia delle ballerine-amanti del suo corpo di ballo, che la circondavano come una regina. Il suo lesbismo non fu, del resto, mai nascosto.
Approdata alla danza relativamente tardi, la carriera di Loie Fuller durò quasi un ventennio, comparendo, negli ultimi anni di vita, sempre più di rado sui palchi. Morì, a seguito di una grave polmonite, nel 1928.

Metodo Martha Graham



A differenza della prima generazione di danzatori moderni americani (in primis Isadora Duncan, ma non meno importanti Ruth St. Danis, Ted Shawn e Maud Allan), che si erano battuti per rinnovamento della danza focalizzando i loro sforzi nell’individuazione dell’impulso spirituale alla base del movimento, Martha Graham e gli altri esponenti della seconda generazione della modern dance (Doris Humphrey, Charles Weidman e Hanya Holm) si concentrarono piuttosto sull’impulso fisiologico, sulle motivazioni interiori del corpo e sulla creazione di un nuovo vocabolario espressivo che non fosse mirato a “creare” ma a “riscoprire” quello che il corpo naturalmente poteva fare.
Rompendo i rigorosi schemi della tradizione accademica, attraverso movimenti sciolti e convulsi, il corpo poteva finalmente esprimersi liberamente, spezzando i vincoli concettuali di una società univocamente fondata sulla verbalità o sul rigore del balletto classico che costringeva i ballerini ad adattarsi a rigidi schemi e posture.
“La mia danza con il mio corpo” significava non più imporre ai ballerini l’adattamento forzato della propria fisionomia a posture rigide, ma, al contrario, adeguare la nuova tecnica, basata sul movimento libero, alla conformazione fisica e alle caratteristiche del corpo dei singoli danzatori.
La danza così, attraverso il suo metodo, si trasforma in una vera e propria arte corporea che si distacca dalla lunga tradizione accademica del balletto classico, da sempre subordinato alla musica e al testo e, in tal modo, diviene la sola espressione artistica in grado di recuperare la dimensione originaria della natura e dell’esistenza umana, attraverso cui l’uomo può esprimere le sue emozioni, liberando il corpo dai vincoli e dai tabù che la società ha generato nei secoli e che inevitabilmente si sono accompagnati al processo di civilizzazione dell’umanità.
La sua ricerca si muove in direzione di un’evoluzione del corpo da una dimensione strettamente individuale a strumento in grado di rendere visibile ed oggettivo il sentire collettivo, ripercorrendo le tracce della memoria dell’umanità intera:
«La cosa più importante, qui, come sempre, è l’assoluta unicità dell’individuo; se tale unicità non si realizza, qualcosa va perduto […] l’ineluttabile necessità di esprimersi è tutto […] a questo punto il flusso della vita raggiunge l’artista e, mentre l’individuo acquista grandezza, quanto vi è di personale si fa sempre meno personale […] Per tutti noi, ma in particolare per un danzatore, data l’intensità con cui percepisce la vita e il proprio corpo, vi è una memoria del sangue che ci parla. … In noi scorre un sangue millenario, con i suoi ricordi. Come spiegare altrimenti quei gesti e pensieri istintivi che ci giungono non preparati né attesi? Forse provengono da qualche remoto ricordo di un’epoca in cui regnava il caos, un tempo in cui, come dice la Bibbia, il mondo non era. Poi, come se lentamente si fosse aperta una porta, la luce fu. Rivelò cose meravigliose, rivelò cose terrificanti, ma luce fu […]».
Per Martha Graham, la danza, infatti «viene dalle profondità della natura dell’uomo, dall’inconscio dove abita la memoria … ed è diretta verso l’esperienza dell’uomo, dello spettatore, per risvegliare in lui analogie e ricordi»; in questo senso è evocatrice dell’essenza dell’uomo.
La tecnica Graham è basata essenzialmente sulla respirazione, sul movimento istintivo dei danzatori e sul rapporto con il suolo, al fine di ritrovare un contatto più profondo e immediato con la terra, esplorata a piedi nudi o con tutto il corpo, espressione di un simbolico nesso con il terreno.
L’uso del tallone, fondamentale per definirsi nello spazio, acquista un rilievo nuovo rispetto a quanto si verifica nel balletto classico, in cui il tallone ha la tendenza a sollevarsi da terra. La costante relazione con il suolo definisce una ripresa di contatto con le forze naturali e concrete, in contrapposizione con il librarsi etereo del balletto classico. I ritmi saltellati con battute a terra dei piedi delle danze rituali degli Indios d’America furono uno dei modelli cui si ispirò la Graham.
Partendo dalla sua personale interpretazione del principio di tensione e rilassamento di François Delsarte, Martha Graham identificò un metodo basato sulla respirazione e sul controllo dell’impulso da lei definito contraction and release, movimento di opposizione di due forze contrarie e complementari che segna il flusso della respirazione, come momento di massima concentrazione dell’energia vitale.
Secondo questo metodo il movimento si origina nella tensione di un muscolo contratto e continua nel flusso di energia rilasciato dal corpo nel momento in cui il muscolo si rilassa. Tale pratica di controllo muscolare conferisce ai danzatori movimenti angolari, secchi e netti che erano molto poco familiari al pubblico dell’epoca abituato ai movimenti morbidi e lirici di danzatrici quali Isadora Duncan e Ruth St. Denis e nelle prime recensioni il metodo Graham fu molto criticato. Solo successivamente fu riconosciuto tutto il suo genio creativo.
Rendere espressiva ogni minima parte del corpo era l’intento di Martha Graham nel definire la sua tecnica e il suo stile. Il danzatore deve essere interamente coinvolto nel movimento; le braccia, le mani, il busto e la testa devono acquistare un significato, essere elementi presenti, elastici e attivi, facendo sì che lo spettatore recepisca come significante la totalità del corpo che vede danzare.
Oltre all’opposizione contraction-release, la spirale è uno dei movimenti più ricorrenti nello stile Graham; esemplificato da un’immaginaria linea elastica di forza che percorre il corpo come una spirale, così da produrre un movimento di opposizione che coinvolge tutta la superficie del torso, creando una torsione della vita che sia connessa in un tutto con la superficie fisica compresa tra gli estremi del collo e del bacino senza però spostare il peso dal baricentro, in quanto, prendendo spunto dalle culture orientali, proprio la zona addominale è concepita come il centro della vita.
Nel dopoguerra il teatro-danza di Martha Graham si rivolge al mito e alla ricerca di personaggi emblematici che possano esprimere le motivazioni profonde dell’agire umano in determinate situazioni, riconoscendo alla danza ha funzione catartica in grado di offrire allo spettatore una sorta di analisi interiore, capace di rendere visibile inquietudini e sofferenze scaturite dalla Seconda Guerra Mondiale.
La sua ispirazione attinse ad un’infinità di fonti, incluso la pittura moderna, le cerimonie religiose dei Nativi d’America e la mitologia greca. Molti dei suoi ruoli principali si rifanno a grandi figure femminili della storia o della mitologia: Clytemnestra, Giocasta, Medea, Fedra, Emily Dickinson e Giovanna D’Arco a cui è dedicato uno dei suoi capolavori: Seraphic Dialogue (1955).
Come artista, Martha Graham concepiva ogni nuova opera nella sua interezza, danza, costumi e musica. Nei suoi settanta anni di attività, oltre, oltre a Isamu Noguchi e Louis Horst, collaborò con l’attore e regista John Houseman; con gli stilisti Halston, Donna Karan e Calvin Klein e con noti compositori quali Aaron Copland, Samuel Barber, William Schuman, Carlos Surinach, Norman Dello Joio e Gian Carlo Menotti. La sua compagnia fu il terreno di formazione di futuri coreografi, fra cui Merce Cunningham, Paul Taylor e Twyla Tharp ed ospitò étoile quali Margot Fonteyn, Rudolf Nureyev e Mikhail Baryshnikov per cui ella creò molti ruoli.
Creò anche movimenti coreografici per attori e cantanti quali including Bette Davis, Kirk Douglas, Madonna, Liza Minnelli, Gregory Peck, Tony Randall, Anne Jackson e Joanne Woodward, insegnando loro come utilizzare il corpo come strumento espressivo.
Negli anni ‘60 e ‘70 Martha Graham continuò a coreografare (nel 1973 creò Lucifer e The Scarlet Letter per Rudolf Nureyev e Margot Fonteyn), ma furono per lo più anni bui, contrassegnati da depressione e abuso di alcool, a seguito del suo forzato ritiro dalle scene, ne 1969, all’età di 76 anni; decisione molto sofferta, nonostante la sua inevitabilità dettata dai limiti fisici sempre più evidenti nel suo corpo di danzatrice: «L’ultima volta che ho ballato era in Cortege of Eagles [...] non avevo programmato di smettere in quell’occasione. Ma fu una decisione terribile che dovetti prendere».
Nel 1984 fu insignita della Legione d’Onore da parte del governo francese e continuò a creare coreografie fino alla sua morte, avvenuta il 1 aprile 1991, mentre stava lavorando ad un balletto per i Giochi Olimpici di Barcellona.
L’impatto di tutta la sua opera è stata una delle eredità più importanti per gli sviluppi della danza ed il messaggio da lei trasmesso è una lezione di poesia e di vita, oltre che di arte: «Dance is a song of the body. Either of joy or pain. The body is a sacred garment. The body is your instrument in dance, but your art is outside that creature, the body. The body never lies.The body says what words cannot».
In Italia la Tecnica Graham è stata introdotta dal 1972 da Elsa Piperno e Joseph Fontano. 
 (da il Giornale della Danza)

ISADORA DUNCAN




Isadora Duncan rappresenta una delle madri della danza moderna americana ma grazie agli scritti che ci ha lasciato si rivela donna di scrittura, libera intellettuale e violentemente anticonvenzionale, ma anche madre tenera ed amante appassionata.
Nasce il 27 maggio del 1878 a San Francisco da madre irlandese e padre scozzese, visse una vita avventurosa e tragica.
Costretta da gravi ristrettezze economiche, abbandonata dal marito, la madre da lezioni di pianoforte, educando i figli alla più completa libertà ed indipendenza. Isadora Duncan cresce in un ambiente familiare impregnato di acuta sensibilità artistica influenzato dalle teorie  sulla mimica di F. Delsarte (1811-71), ricevendo così una formazione improntata all'amore per la libertà e per la natura tipico dello spirito di frontiera americano.
 Decisa a calcare il palcoscenico, rifiuta l'estetica del balletto accademico e dedica la sua vita ad elaborare una nuova, personale forma di danza classica, dove il termine classica è da intendere come ellenica, ispirata cioè all'antica Grecia. La danza di Isadora rivela i sentimenti più intimi dell'animo in modo istintivo ed autentico esprimendo uno stato naturale dell'uomo, tendere cioè verso la liberazione spirituale e corporea: l'eleuteron greco. La sua riforma fu drastica e completa: via il tutù, le scarpette di raso, la calzamaglia, tutto è finalizzato alla maggiore naturalezza e libertà del corpo, dei movimenti.
La danza era ora a piedi nudi, con semplici tuniche di velo
drappeggiato. Niente più elementi costrittivi ma il corpo vibra nell'aria come le onde del mare si increspano nel vento. In opposizione perciò al balletto tradizionale, giudicato da lei oppressivo della fisiologia, crea la "danza naturale" basata su pochi movimenti naturali, caratterizzata da gesti di trasparente simbolismo e ispirata ai bassorilievi ed alle pitture vascolari del British Museum. Il rifiuto di ogni accademismo furono fondamentali per la nascita della futura modern dance americana, mentre con il sostegno di musiche non nate per il balletto, come Beethoven, Gluck, Chopin ecc. anticipò una caratteristica fondamentale del moderno balletto sinfonico che,  attorno al 1930, vedrà in Massive e, successivamente, in Balanchine, i loro geniali propugnatori. Nel 1884, col sostegno della sorella maggiore e della madre, che accompagna le lezioni al pianoforte al suono di Beethoven, Mozart e Schumann, le due sorelle acquistano presto grande popolarità ottenendo i primi guadagni grazie all’insegnamento della danza presso le case della buona borghesia di San Francisco.
Ma grazie all’intervento del padre che in un momento di temporanea fortuna decide di risollevare le sorti della famiglia facendo dono di alcune  proprietà i fratelli, Raymond ed Augustin, riescono a mettere in piedi un teatrino mettendo in scena una tournée destinata a tutte le città della costa. 

Nel 1895, Isadora Duncan, smaniosa di successo, decide di partire per Chicago con la madre. Vive giorni assai duri dove, per mantenersi, danza in ogni genere di locali.
Entra nella compagnia di Augustin Daly di New York, con cui compirà una tournèe di un anno. Presto viene raggiunta dalla famiglia, ma poco dopo Isadora lascerà Daly per  riprendere l'insegnamento. Si dedica allo studio dei tragici greci  e di Platone, compone coreografie sulle musiche di Ethelbert Nevin  (Narciso, Ofelia, Le ninfe delle acque) che l'accompagna al pianoforte. Nel 1898  a causa di un incendio presso un albergo di New York dove la famiglia Duncan  soggiornava, Isadora perde tutti i suoi averi, dunque, con straordinaria tenacia, convince  i fratelli e la madre a trasferirsi a Londra. Dopo un periodo di totale miseria, grazie al mecenatismo della ricca signora Campbell, riesce ad inserirsi nei circoli mondani ed intellettuali della città. A Londra Isadora Duncan trascorre intere giornate nel British Museum nella contemplazione delle antiche opere di arte greca. Studia i miti greci, le posizioni e i movimenti delle figure dipinte e scolpite, si interessa all'influsso dell'arte greca sulla musica, la pittura, la danza..
Incontra Ellen Terry, la grande attrice che, da questo momento in poi, incarnerà il suo ideale artistico e femminile. Nel 1900 decide di trasferirsi a Parigi, passa molto tempo al Louvre; conosce A. Bourdelle, A. Rodin,  prende corpo in lei  l'utopia di un'umanità danzante libera dai condizionamenti sociali, l'idea della danza come spontanea oggettivazione dei sentimenti interiori in movimenti che si susseguono generandosi l'uno dall'altro come le onde del mare.

Nel 1903 parte  per Budapest dove si esibisce trionfalmente per trenta sere. In Ungheria incontra il suo primo amore, l'attore Oskàr Beregi, ma il loro rapporto ha presto fine. Si immerge nello studio di Kant e di Schopenauer. In quegli anni  durante un breve viaggio in Italia rimane profondamente colpita dalla "Primavera" di Botticelli. Nel 1904 parte col fratello per un lungo viaggio in Grecia e lì fonda la sua prima scuola. Al suo rientro a Berlino porterà con se le sue allieve. Nasce in questi anni la sua passione per Nietzsche.
Al 1905 risale il primo viaggio in Russia. A Pietroburgo assiste al funerale delle  vittime della rivolta operaia e decide di consacrare la propria arte al servizio degli oppressi. Danza con successo a Mosca, Kiev, Pietroburgo al ritmo delle "Polacche" di Chopin, il coreografo M. FoKine ne rimarrà profondamente colpito. La convinzione profonda che la grande scuola imperiale di balletto si fondi sulla negazione di ogni spontaneità non ostacola il rapporto di ammirazione tra lei e le maggiori esponenti della tradizione classica russa come Anna Pavlova. A Mosca rimane affascinata da K. Stanislavskij e dal suo teatro. Di ritorno a Berlino incontra lo scenografo Gordon Craig , figlio del suo idolo Ellen Terry, Isadora vede nella sua arte la realizzazione ideale delle proprie idee teatrali, inizia con lui una relazione, pur tenendo fede al proposito di non sposarsi per non perdere la propria indipendenza, dalla relazione nascerà la primogenita Deirdre  Nel 1906 parte per una tournèe in Danimarca. Trascorre l'Estate  nel mare di Nordwyck in attesa che a settembre nasca Deirde. Al ritorno a Gunelwald allaccia stretti rapporti con Eleonora Duse, con lei e con Craig si trasferirà a Firenze.
Nel 1909 incontra a Parigi l'industriale ebreo Paris Singer, dal quale ebbe il secondo figlio Patrick, grazie  al sostegno finanziario di Singer Isadora poté fondare qualche anno dopo un’altra scuola, sempre a Parigi, incontrerà Gabriele D'annunzio.

Nel 1913 di rientro da una tournée dalla Russia, l'automobile  nella quale si trovavano i suoi due  bambini precipita nella Senna, perderà entrambi i figli, Isadora Duncan tuttavia ritrova comunque la forza di ritornare alla  vita ed alla danza. Vaga per l'Italia, incontra Rudolf V.Laban, ripone le sue speranze nella nascita di un terzo figlio che però muore subito dopo, trascorre un periodo di riposo a Viareggio ospite della Duse. Nel 1915 parte per New York; decisa a scuotere gli americani dalla loro indifferenza per le sorti della guerra. Danza la Marsigliese al Metropolitan avvolta da uno scialle rosso, ma delusa e amareggiata da un pubblico attento solo dei ritmi Jazz riparte per l'Italia. Nel 1917 è a Cuba e in giro per gli Stati Uniti dove si trovava all'annuncio della rivoluzione sovietica. Nello stesso anno riparte per Parigi dilaniata dai bombardamenti; Isadora di nuovo è priva di mezzi.
 Nel 1921, dietro invito di Lenin,  raggiunge Mosca dove riceve dal governo sovietico l'incarico di impiantarvi una scuola. Infiammata dalla passione rivoluzionaria, convita di poter realizzare a Mosca la danza del futuro per una umanità nuova, danza per le masse, insegna ai figli degli operai. Nel 1922 rompendo il giovane giuramento, sposa il poeta Sergèj Esènin, il matrimonio dura poco, al termine di una tournèe in America i due si separano.
Il legame  con   Esenin  le procurò difficoltà enormi da parte  delle autorità  americane, sia per le simpatie filosovietiche dei coniugi sia per il comportamento del marito, alcolista e bisessuale,  Esenin morirà suicida.
 Dopo tre anni di lavoro Isadora è costretta ad interrompere l'attività della scuola poiché il regime le nega ulteriori sovvenzioni, riparte per Parigi. Nel 1927 danza al Mogador l'Ave Maria di Schubert.
Il 14 Settembre 1927 Isadora Dunchan muore a Nizza, strangolata da una lunga sciarpa che portava al collo impigliatasi nelle ruote della sua Bugatti: morte drammaticamente scenica, ultimo atto di una vita in prima fila vissuta "senza limiti".
Verrà pubblicato postumo il suo libro autobiografico "La mia vita". In esso Isadora racconta se stessa, le sue passioni, il suo genio, i legami creativi con gli ambienti intellettuali europei, i suoi amori: E.Craig, P.Singer, la sua amicizia con Rodin, D'annunzio ed Eleonora Duse, rapporti che si snodano, in bilico tra realtà e leggenda, sulla fitta trama di una vita vissuta in un viaggiare continuo, sino all'avventura nella Russia rivoluzionaria ed al suo ultimo, lacerante amore per S. Esenin.